Salute per tutt*

Pubblichiamo con un po’ di ritardo questa analisi prodotta dall’Assemblea 7 aprile in occasino della giornata mondiale contro la commercializzazione della salute. Si tratta di spunti di riflessione intorno all’ampio tema della salute in tempi di emergenza COVID. Per partecipare al dibattito collettivo e alla campagna trovate ulteriori informazioni sulla pagina facebook.

Privatizzazione e tagli al Ssn

Di fronte ad una crisi sanitaria di dimensioni epocali il Servizio Sanitario Nazionale è sull’orlo del collasso, rivelando tutta la sua cattiva salute. Sono circa 37 i miliardi complessivi di tagli alla sanità negli ultimi 10 anni, le strutture sono inadeguate, si sono persi circa 70.000 posti letto. Secondo dati OECD la Corea del Sud, dove la letalità del Coronavirus è stata bassissima, è la seconda nazione al mondo per numero di posti letto negli ospedali del servizio sanitario nazionale (13 ogni 1000 cittadini) mentre l’Italia si classificherebbe alla ventiseiesima posizione (3 ogni 1000). Sebbene i dati di letalità e posti letto vadano considerati rispettivamente al netto dell’età media della popolazione e dell’efficienza del sistema sanitario, è chiaro che un possibile contenimento degli effetti della pandemia passi dalla capacità di reazione. I dispositivi di protezione individuale (soprattutto le mascherine) scarseggiano, come gli operatori sanitari, che vengono utilizzati (e celebrati) come fanteria durante la prima guerra mondiale. Il coronavirus non è il principale responsabile di questa crisi, malgrado l’abbia notevolmente accelerata. Quella che stiamo vivendo è una crisi che ha origini lontane ed è la conseguenze di precise scelte politiche. La responsabilità è sulle spalle di tutti quei governi che negli ultimi 40 anni hanno tagliato miliardi al budget del SSN, e che hanno trasformato, tramite un processo di aziendalizzazione, la salute in una merce come le altre.

Altrettanto rilevante è la considerazione che l’ibridazione con il privato ha portato il sistema sanitario a specializzarsi su settori di nicchia e potenzialmente più remunerativi. Il sistema sanitario privato non ha interesse ad investire in quelle attività e funzioni “sistemiche” essenziali (come ad esempio la rianimazione) per affrontare le emergenze. Queste prerogative sono tipicamente pubbliche proprio perché non remunerative e vengono meno con lo spostamento di risorse dal sistema pubblico a quello privato (attraverso l’espansione di assicurazioni sanitarie e casse mutue). Ne sono un esempio le funzioni di informazione, logistiche e di coordinamento. Queste funzioni essenziali nei momenti di crisi dovrebbero: informare le policies sanitarie basandosi su dati scientifici ed epidemiologici aggiornati; coordinare nel tempo e nello spazio le diverse istituzioni sanitarie altrimenti frammentate; attuare protocolli di emergenza come ad esempio l’istituzione di corridoi sanitari alternativi all’ospedale.

Ci sembra particolarmente rilevante che la regione a maggior rischio collasso sia proprio la ricca Lombardia, da tempo l’avamposto della crescente ibridazione fra pubblico e privato. In particolare, la provincia di Bergamo sembra essere tra le più interessate dalle “privatizzazioni” con meno del 40% delle strutture sanitarie di natura pubblica. Nella bergamasca lo spostamento di risorse e di preponderanza organizzativa verso il settore privato ha causato una paralisi decisionale, logistica e di risorse. Questa paralisi ha portato per esempio la Lombardia a non disporre di alternative all’ospedalizzazione dei contagiati (superiore al 60% dei casi nelle provincie più colpite), che a sua volta ha contribuito in maniera decisiva all’espansione del contagio.

Come se ciò non bastasse, questa crisi costituisce un’ulteriore possibilità di lucro per la sanità privata, vista la maggior facilità con cui si potranno stipulare accordi economici con strutture non accreditate e all’indennizzo più che vantaggioso previsto dal decreto del 17 marzo nell’eventualità della requisizione degli stabili.

Salute vs Produzione

A quasi un mese dal primo decreto per l’emergenza COVID, se proviamo a delineare quale sia stato il comune denominatore delle misure intraprese ci sembra evidente che la preoccupazione maggiore fosse la salvaguardia di produzione e interessi economici, finchè possibile, addossando rischi e responsabilità sui cittadini che, pur continuando a lavorare, non avrebbero però dovuto uscire di casa, neppure per andare al parco. Si è scatenata così una caccia all’untore, sui social come dai balconi, in cui la responsabilità civica si misurava in numero di disobbedienti denunciati. Nel mentre molte fabbriche e aziende rimanevano aperte senza garantire gli standard minimi di sicurezza, i lavoratori della logistica non potevano fermarsi, così come i rider, i dipendenti dei servizi commerciali e tanti altri lavoratori e lavoratrici che esponevano sé stessi e le loro famiglie al rischio del contagio. La messa a punto di dispositivi di welfare che garantissero a tutti la possibilità di restare a casa è iniziata con molto ritardo ed è ancora in dubbio per molte categorie. Se dal punto di vista sanitario queste misure si sono rivelate inefficaci, dato che per rallentare il contagio la popolazione dovrebbe trascorrere meno tempo in spazi chiusi, dal punto di vista sociale esse profilano i caratteri di un’ingiustizia.

Anche con il decreto firmato il 22/03/2020, malgrado sia tristemente evidente che fermare la produzione sia l’unico modo per arginare i contagi, le misure sono di facciata, e in extremis il governo ha dovuto aggiungere una serie di postille, pretese da Confindustria, per ridurre al minimo le perdite produttive a scapito della salute di noi tutte/i. In seguito al decreto rimangono impegnati circa 3,5 milioni di lavoratori, circa il 25% della forza lavoro italiana. La situazione nel bergamasco è, anche in questo caso, paradigmatica. La stessa provincia da cui oggi vediamo partire convogli militari che trasportano cadaveri è fra le più ricche e produttive d’Italia: la zona della Val Seriana fra Alzano Lombardo e Nembro, i due focolai del contagio, comprende 376 aziende, che impiegano 3700 dipendenti per un fatturato annuo di 680 milioni di euro. Nel bergamasco le fabbriche e i negozi sono rimasti aperti anche grazie alle pressioni del Distretto di Commercio di Bergamo, che con tanto di clip musicale accompagnato dall’hashtag #bergamononsiferma, invitava allo shopping (28 Febbraio). L’hashtag accelerazionista è stato copiato dal #milanononsiferma di Beppe Sala, che il giorno prima dichiarava: “Milano, milioni di abitanti. Facciamo miracoli ogni giorno. Abbiamo ritmi impensabili ogni giorno. Portiamo a casa risultati importanti ogni giorno perchè ogni giorno non abbiamo paura. Milano non si ferma”. Quel “non abbiamo paura” testimonia l’anaffettività e spregiudicatezza di una società incapace di discostarsi dai propri automatismi. Ne abbiamo visto le conseguenze: metropolitane affollate fino a Marzo inoltrato e migliaia di morti. Sempre il 28 Febbraio, faceva eco a questo leitmotiv il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che poi ammetterà: “Abbiamo pensato che si potesse tenere insieme la prudenza, il rispetto delle regole, le distanze di sicurezza, e la vita normale. Eravamo preoccupati per il virus, ma anche per le attività economiche delle nostre città. Ma quell’equilibrio non poteva reggere”. Il 4 marzo difronte all’impennata di contagi nel suo comune, il sindaco di Alzano Lombardo, Camillo Bertocchi dichiarava: ”Accetteremo quello che gli organismi superiori definiranno, so che la comunità scientifica sta per esprimere un parere in merito e ci sarà poi il filtro della politica, che dovrà tenere conto della nostra particolare situazione economica, che è molto strutturata. Mi aspetto che in questa valutazione ci sia un capitolo relativo all’industria che senza una soluzione di continuità proporrebbe danni incalcolabili”. In breve, gli amministratori delle aree maggiormente colpite (ad oggi probabilmente quelle con il maggior numero di contagi sul totale della popolazione a livello mondiale) hanno agito in maniera poco informata, privilegiando in prima istanza gli interessi economici, influenzati dai rapporti di forza che in queste zone altamente produttive vedono il settore industriale avere maggiori interessi e potere politico (si confrontino ad esempio tempestività ed efficacia delle misure contenitive nella provincia bergamasca e lodigiana, la seconda a vocazione più agricola e commerciale). L’11 Marzo si fa portavoce di questi interessi il presidente di Confindustria Marco Bonometti che, mentre la Regione Lombardia decretava la zona rossa in tutto il suo territorio, dichiarava: «indispensabile la necessità di tenere aperte le aziende», per non «dare all’estero un segnale di mancata capacità produttiva difficile da recuperare nel breve periodo». Non è nostro intento fare un processo mediatico alle personalità sopracitate. Riportiamo queste considerazioni per criticare pratiche e valori del sistema politico, culturale e sociale di cui sono espressionee che crea, riproduce e legittima profonde disuguaglianze. Una società di questo tipo sarà necessariamente incapace di percepire i rischi a cui va in contro e si troverà in un cronico stato di emergenza.

Non è salute se non è globale

C’è un altro aspetto che riteniamo importante sottolineare. Di quale salute stiamo parlando? E salute di chi? È ormai evidente che le conseguenze più devastanti di questa pandemia saranno sociali ed economiche. La crisi fa emergere con maggior evidenza processi sommersi di esclusione e marginalizzazione già in atto precedentemente ad essa, dai quali non si può prescindere per valutare lo stato di salute dell’intera comunità. La salute, così come la malattia, è il risultato di processi complessi di carattere culturale, sociale, affettivo, economico e politico. Nonostante sia ormai da anni che l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia definito la Salute come “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale”, questa concettualizzazione sembra rimanere solo sulla carta. Risulta chiaro che la salute di cui il governo intende occuparsi, è soprattutto quella fisica, biologica: un corpo sano abbastanza da andare a lavorare! Ancora una volta abbiamo davanti agli occhi gli effetti dello sguardo miope con cui molte istituzioni approcciano la salute, intensa come mera assenza di malattia, rischiando di dimenticarsi delle dimensioni psicologiche e sociali e di scaricare il peso della crisi sui legami sociali e sulla salute relazionale e affettiva dei cittadini.

La quarantena è necessaria a tutelare la salute di tutte e tutti ma sembra scarso l’interesse sulla potenziale esacerbazione della sofferenza psichica, evidenziata anche da alcuni studi sulle misure di distanziamento sociale attuate in Cina: le persone messe in quarantena avevano una probabilità maggiore di quattro volte di sviluppare un disturbo post traumatico da stress rispetto a un gruppo di controllo non in quarantena. Coerentemente, il disturbo più frequentemente diagnosticato, alla fine della quarantena, è stato il disturbo acuto da stress.

La condizione di segregazione forzata in casa si basa sull’assunto che ogni persona abbia uno spazio adeguato e sicuro in cui stare, con legami interni alla famiglia stabili e senza alcuna necessità di sostegno esterno. Questa condizione non è generalizzabile: i tagli al welfare (non solo alla sanità), l’aumento dei working poors e la precarizzazione del lavoro hanno eroso patrimoni, risparmi e reti sociali, rendendo cronica una condizione di precarietà ed incertezza che rischia di sfociare in violenza domestica o di essere accompagnata da sofferenza psichica. Questa sofferenza già in tempi “normali” è spesso ignorata, e la sospensione dell’ordinarietà in molti casi ha interrotto i servizi di base alla persona e i servizi socioassistenziali fondamentali per molti.

Sebbene in alcune realtà gli operatori continuino a garantire assistenza e cure sia nei servizi che al domicilio dei pazienti, in altre, dove i centri di salute mentale hanno sospeso attività ordinarie e riabilitative, c’è il reale rischio che il contenimento del virus faccia collassare situazioni familiari già di per sé precarie. Il peso dell’assistenza ricade così interamente sulle famiglie, traducendosi in forme di frustrazione incontenibili che possono risultare pericolose oltre che dolorose. L’impennata dei ricoveri è stata in questo senso allarmante, a Torino abbiamo assistito ad un aumento vertiginoso dei Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO). Basti pensare che nella giornata del 20 marzo nel capoluogo piemontese si sono verificati nove TSO, a fronte della media di 180 – 200 trattamenti all’anno (meno di uno al giorno). I servizi di salute mentale già soffrivano di una condizione di grande fragilità e disomogeneità, sia nella organizzazione dei servizi che nelle pratiche operative, la pandemia non ha fatto che far emergere cioè che prima era invisibile.

Inoltre non c’è alcun accenno nei decreti alla salvaguardia della salute psichica e dei rischi del burnout nel personale medico sanitario che vive un profondo senso di incertezza. Si tratta delle persone più esposte al rischio di contagio (con quello che ne consegue a livello familiare) allo stress lavoro correlato.

Fattori antropici ed ecologici

I rischi collegati a fattori climatici e ambientali vanno considerati anch’essi come un’esternalità negativa dell’economia globalizzata neoliberista e della produzione industriale, e in quanto rischi sistemici non possono essere assunti dai singoli cittadini, ma sono responsabilità della collettività intera. E’ancora preliminare l’evidenza scientifica a favore di una correlazione tra la diffusione del Covid-19 e l’inquinamento atmosferico, anche se alcuni studi mostrano una relazione tra concentrazione di particolato atmosferico e diffusione del virus. Anche la prognosi di malattie come SARS e Covid-19 sembra essere influenzata negativamente dall’esposizione all’inquinamento atmosferico1. L’inquinamento atmosferico è infatti associato ad un aumento della mortalità dei pazienti con SARS nella popolazione cinese, probabilmente poiché, come è stato dimostrato, l’effetto dell’inquinamento atmosferico sul sistema respiratorio è sinergico al meccanismo autoimmune (tempesta di citochine) che rende fatali SARS e Covid-19. Più in generale, gli effetti sull’ambiente dell’attività dell’uomo sono da tempo riconosciuti come fattori cruciali nella nascita e diffusione di malattie potenzialmente disastrose per la salute globale.

L’OMS avvertiva già nel lontano 2007 che le infezioni virali, batteriche o da parassiti sono una delle minacce più consistenti in un Pianeta dove gli effetti del cambiamento climatico si fanno sempre più gravi. La maggioranza delle malattie infettive emergenti diffusesi negli ultimi decenni come SARS, HiV ed ebola, sono zoonotiche, cioè trasmesse dall’animale all’uomo. Ad esempio il coronavirus era ospitato dal pipistrello, portatore sano del virus poi passato all’uomo. Diversi studi hanno mostrato come i rapidi cambiamenti climatici ed ecologici prodotti dall’attività umana innescano una serie di reazioni a catena che spingono gli animali al di fuori delle loro solite nicchie ecologiche favorendo il contatto umano coi vettori, spesso portatori sani di queste malattie2. Deforestazione, estrattivismo, consumo del suolo, aumento delle temperature, urbanizzazione e in generale tutte le alterazioni di equilibri naturali stabiliti nel corso di millenni aumentano il rischio del così detto spillover, ovvero del contagio dell’uomo da parte di agenti patogeni provenienti dagli animali3. Nello stesso tempo, globalizzazione e traffico aereo aumentano vertiginosamente le possibilità di diffusione epidemiologica. Gli stessi farmaci e pesticidi utilizzati per combattere le malattie degli uomini e della produzione agroalimentare possono accelerare la mutazione genetica dei microbi e indurne la farmacoresistenza, che l’OMS considera una delle maggiori minacce alla salute globale3. Il nostro genoma è coevoluto insieme agli agenti patogeni, lungo tutta la storia dell’umanità, permettendoci di convivere con i parassiti che abitano i nostri corpi, ma potrebbe non essere in grado di stare al passo con i rapidi cambiamenti dell’antropocene. In generale, secondo molti esperti, i cambiamenti climatici saranno la principale minaccia per la salute del ventunesimo secolo, causando a detta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità circa 250.000 morti aggiuntive ogni anno fra il 2020 e il 2050.

Il 7 aprile sarà #salutepertuttietutte #health4all

Riuscire a stare nella complessità di questa fase emergenziale vuol dire riconoscere e prendere sul serio la necessità delle misure di prevenzione, senza però fare arretrare sulle rivendicazioni per i diritti di tutte e tutti . Rivolgiamoci a chi ha tagliato i fondi alla sanità pubblica e verso chi ha deciso che, anche in questa emergenza, i profitti vengono prima della salute delle persone.

In questo momento in cui a tutte e tutti vengono chiesti sacrifici, dallo stare a casa all’esporsi al contagio per “mandare avanti il paese”, come assemblea 7aprile crediamo che:

  • la sanità pubblica debba essere adeguatamente rifinanziata per poter prendere in carico la salute dei cittadini intesa globalmente per comprendere le sue dimensioni biologiche, sociali, politiche, affettive e relazionali.
  • la sanità privata debba restituire una parte di quelle ricchezze sottratte alla fiscalità generale e che venga chiamata a contribuire in maniera sostanziale e senza ulteriori profitti alla risoluzione della crisi sanitaria.
  • debba essere erogato un reddito universale, basato sui principi dell’uguaglianza, della progressività e della gratuità. Un reddito cioè il più possibile inclusivo che eviti nuove disuguaglianze e un incremento del debito pubblico.
  • debbano essere abrogati il Decreto Lupi e i Decreti sicurezza che contribuiscono ad esporre maggiormente le fasce più fragili all’emergenza sanitaria ed economica.
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Una risposta a Salute per tutt*

  1. Giulia scrive:

    Condividendo pienamente il contenuto del documento, aggiungo due punti di discussione.

    Uno di questi è l’acutizzazione del divario sociale causato dalla situazione di crisi attuale. Se già prima dell’emergenza covid-19 le classi sociali più svantaggiate, in cui rientrano spesso migranti, senza setto, disoccupati, persone che svolgono lavori meno pagati e più pericolosi, avevano un livello di salute più basso rispetto alle classi sociali più alte, questo divario verrà ulteriormente accentuato della situazione attuale, come sottolinea una recente metanalisi sul nesso tra gli outcome della pandemia di influenza e lo status socioeconomico (Svenn-Erik et al., 2019)

    Il divario deriva da una maggior esposizione ai fattori di rischio del contagio, per minor informazione (a causa, per esempio, dei problemi di lingua), occupazione lavorativa in luoghi affollati dove non sono state sempre prese le adeguate misure di protezione (come in alcune fabbriche), le abitazioni più piccole e abitate da più persone, nelle quali le precauzioni per evitare il contagio risultano impossibili da attuare.
    Come sottolinea, infatti, il Dott. Costa in un recente articolo, l’esposizione al Covid-19 non è uguale per tutti (Costa, 2020).

    A questo si deve aggiungere la maggior vulnerabilità di queste persone, le maggiori difficoltà portate dalla chiusura delle scuole (date, per esempio, dalle difficoltà economiche per la necessità di strumentazioni per la didattica online, la problematica di dover continuare a lavorare e lasciare i figli a casa da soli, ecc), la maggior difficoltà a trovare lavoro per le persone disoccupate, o di continuare a lavorare per chi lavorava in nero, condizioni peggiorate dalla maggior difficoltà di accedere ai sistemi socio-assistenziali. Tutti questi fattori accentuano una condizione di stress che avrà ricadute sulla salute fisica e psichica delle persone già più deboli, contribuendo alle conseguenze negative che questo porta (schematicamente, salute più precaria > impossibilità di lavorare > peggioramento delle condizioni economiche > maggior esposizione a fattori di rischio lavorativi e ambientali e maggiore vulnerabilità > peggioramento delle condizioni di salute), innescando una spirale di sempre più difficile controllo.

    Questi sono esempi per riflettere sul fatto che quest’epidemia non è democratica, come spesso è stata definita, poiché acuisce delle problematiche che erano presenti già prima, su cui si sarebbe già dovuto intervenire, ma che ora necessitano ancor più di una presa in carico da parte del SSN, per non rischiare delle gravi, ma evitabili, ricadute sulla salute fisica e psichica di persone già vulnerabili.

    Il secondo punto di riflessione è quello delle donne.

    La mortalità per covid-19 delle donne è del 5,9 % inferiore a quella degli uomini, come riportato dal secondo report dell’Istituto superiore della sanità. Meno male, avremo pensato in tante, per una volta non saremo svantaggiate. E invece no. Stiamo assistendo ad una disparità di genere su più fronti e nell’indifferenza totale delle istituzioni.

    La violenza sulle donne è esponenzialmente aumentata, come dimostrano le richieste di aiuto ai centri antiviolenza che sono aumentate del 74,5%, secondo la rilevazione fatta dai centri D.i.Re., rispetto allo stesso periodo lo scorso anno. Dato che in realtà sottostima la problematica, dato che gli stessi centri dichiarano che, di queste, solo il 28% sono donne che non si erano mai rivolte prima ai centri antiviolenza del loro territorio, rispetto al 78% de 2018, indice della difficoltà di queste persone nel contattare i centri per chiedere aiuto.
    Questa situazione non è un’esclusiva italiana, la maggiore organizzazione britannica a sostegno delle vittime di violenza ha registrato un aumento delle chiamate del 700 %. Al tempo stesso, queste strutture rischiano tagli e chiusure.

    Ma la disparità la ritroviamo in realtà nella vita della maggioranza delle donne e va oltre la violenza fisica.

    Le donne sono massicciamente esposte all’infezione, dato che in Europa due terzi degli operatori sanitari sono donne, l’83% del personale alla cassa è femminile e circa il 90% dell’assistenza domestica è affidato alle donne, come ci ricorda António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, in una recente intervista.
    Per il resto, come sottolineano Casarico e Lattanzio in un articolo del 28 aprile, il 72 % cento dei lavoratori che tornano al lavoro il 4 maggio sono uomini.
    Questo porterà inevitabilmente ad un maggior carico di lavoro domestico per le donne, già aumentato dalla chiusura delle scuole, e un allontanamento dal mondo dal lavoro, già non equo.

    Questo avrà delle ripercussioni inevitabili sulla salute mentale delle donne, a causa delle conseguenze negative dell’isolamento, tra cui il distanziamento sociale, il carico di lavoro domestico non pagato, la precarietà economica, la violenza.

    Dalle istituzioni un’emblematica risposta è stata la nomina del Comitato tecnico scientifico, che supporta il Capo della Protezione Civile nell’emergenza Covid: in tutto 20 persone, tutte uomini.

    Riferimenti
    Mamelund, S., Shelley-Egan, C. & Rogeberg, O. The association between socioeconomic status and pandemic influenza: protocol for a systematic review and meta-analysis. Syst Rev 8, 5 (2019)
    Costa G., Schizzerotto A. Se la pandemia accentua le disuguaglianze di salute. La voce.info, 7 aprile 2020

    Guterres A., La pandemia aggrava le disuguaglianze di genere, il Corriere della Sera,29 aprile 2020

    Casarico A., Lattanzio S., Nella “fase 2” a casa giovani e donne, lavoce.info, 28 aprile 2020

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